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Ti sei mai chiesto cosa dicono o pensano le statuine, i burattini, i giocattoli? Forse potresti immaginare la risposta ricordando film Toy Story della Pixar. Oppure ci piace pensare alla visione romanzata e con un finale a lieto fine del mondo inanimato che prendeva vita nelle nostre menti da bambini, o ancora alla versione ribelle di una sedia, come nel film A Chairy Tale del canadese Norman McLaren.

Eppure quella domanda rimane ancora nella nostra mente da grandi. Conosco chi da ancora dei nomi al proprio PC, alla propria auto o moto. Esistono al mondo – forse lo sei anche tu – persone che danno ancora, una vita o personalità agli oggetti che li circondano anche da adulti, rintanandosi nell’immaginazione più pura e nel ricordo di quel mondo che ci circondava da bambini.

Questa è una domanda che si è posto anche il regista Marco Jemolo e che, a mio parere, ha risposto egregiamente.

Da tempo sono impegnato nelle ricerche sull’animazione di personaggi. Se dovessi spiegare in poche parole il termine stop motion potrei farlo spiegare in meno di 7 minuti al regista Marco Jemolo.

Framed è un poetico capolavoro di cortometraggio premiato in molti eventi e festival della cinematografia. Un concetto semplicissimo raccontato nel modo più complesso di fare un film.
Si, perché il lavoro in stop motion prevede un lavoro in produzione interminabile, fatto di piccoli movimenti e ripetizioni infinite delle riprese. La frammentazione e la rielaborazione del principio che sta alla base della pellicola. Frame by Frame.

In questo cortometraggio ho scoperto la vera essenza del racconto, in tutta la sua terribile brevità, un concetto che va ben oltre la domanda “Chi siamo?”. Un credo che sta alla base della nostra infanzia e che raccoglie i sentimenti di chi non vuole abbandonare le cose a lui care.

Il cortometraggio, se siete a casa, lo trovate su Prime Video oppure potete guardarlo anche qui. Ne vale la pena!

Posso immaginare che non a tutti quanti piacciano i film o le serie tv con gli zombie, ma sono rimasto impressionato dalla bellezza di come sia stata girata questa serie.

Un progetto arduo già dai primissimi minuti della prima puntata, 5 frame di una cittadina desertica, con una sirena di fondo che non lascia presagire niente di tranquillo. 

La storia suddivisa in capitoli, una struttura parallela della narrazione che scopri dopo i primi titoli e la cosa che più mi è piaciuta: molte scene concepite in piano sequenza. 

Un continuum di adrenalina e lotta contro il tempo che porta lo spettatore a sperare sempre in un respiro e una ricerca della pace. 

Un concetto ben diverso di zombie alla “The Walking Dead”, dove sono i protagonisti a cadere nelle braccia dei vaganti; qui il gioco si fa duro visto che, chi si trasforma, diventa crudelmente affamato e conserva la forza e le abilità di una persona normale. Un atteggiamento meno anni ottanta e molto più realistico dell’approccio alla tragedia.

Più realistiche anche le sensazioni vissute e il panico trasmesso che ti invita a vedere le due stagioni tutte d’un fiato. 

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