In ogni comunità esistono da tempi remoti usanze antiche che spesso sembrano essere superflue ad alcuni osservatori poco attenti.
Il cortile di mia nonna, ad esempio, era un teatro di mille avventure, dove ho passato l’infanzia crescendo tra peripezie e serate con le persone che ho sempre amato. Quel posto magico e pieno di ricordi diventava il cuore della settimana della festa. Si sistemavano le piante nei vasi, si puliva e la domenica si banchettava a pranzo. Eravamo in tanti. Sono 5 i figli di mia nonna tutti con figli a carico e in un attimo, quel cortile diventava un ristorante degno delle migliori location per cerimonie che oggi vengono ricercate dagli sposi novelli.
Poi il pomeriggio si apriva il portone e tutte le sedie venivano disposte a semicerchio come in un anfiteatro. Al centro un tavolo con bevande fresche e succhi. E si aspettava.
Dal fondo della strada le prime note di un clarinetto, quello più acuto della banda e il battere costante della grancassa.
Scorgevo da lontano le prime persone che si affollavano. I vigili in testa poi tutti gli uomini in tunica ed il parroco al centro. Era la processione!
Nonna diceva: Sta arrivanne, pigliate a uantiera!
Un vassoio di argento che usava solo per porgere le tazzine di caffè e i biscotti agli ospiti, che in quel momento si riempiva di petali dei fiori di ortensia che crescevano nel cortile, e tutte le sue foglie larghe tagliuzzate a pezzettini come coriandoli. Il profumo di quel momento mi rimarrà sempre in mente insieme al ricordo delle grosse mani di mia nonna che sistemavano quei fiori come se ogni petalo avesse la sua importanza.
La folla riempiva il fondo del vicolo, le persone si affacciavano dai balconi, la musica diventava sempre più alta.
E appariva lui ‘O zingarone. La statua lignea del nostro Santo nero. Un vescovo emigrato in Italia perché perseguitato. Un uomo scappato dalla persecuzione di un tiranno e salvato per suo miracolo da un naufragio.
Quella statua galleggiava sulla gente, alta e imponente. Ondeggiava sulla folla come su una barca. Sorretta da uomini vestiti di bianco.
Stringevo la mano a mia nonna e guardavo con gli occhi increduli lo sguardo penetrante di quell’uomo che osservava dall’alto i suoi fedeli.
Non sono mai stato credente, ma ho sempre rispettato la fede che aveva mia nonna è che ha tramandato a tutta la famiglia. Quell’istante era il momento che aspettavo ogni anno, l’attimo in cui quella statua si trovava davanti al nostro portone.
Poi la musica si fermava. Due rintocchi di grancassa squarciavano le note. Un istante di silenzio e la voce di un uomo che guidava i portantini, solenne come un generale che guidava il suo esercito al solo comando della sua voce.
Alt!
A quel primo segnale tutto si fermava, la voce guida del caposquadra che chiamava i comandi, forte e chiara, guidava ogni gesto e ogni respiro.
Stampelle!
I portantini in un’unica danza si muovevano, in sincronia, come un’anima sola.
Con maestria, poggiavano la pesante statua sui paletti, onorando una tradizione che scorre nelle vene del nostro paese.
Ma chi è il caposquadra, se non il custode di questa eredità? Prima di Giovanni, che oggi porta con grazia questo fardello, c’era Tonino D’Ambra, e prima ancora, Saverio Lettera, l’artefice di armonie tra forza fisica e devozione ma soprattutto papà di Giovanni, l’attuale custode di questa tradizione.
Un momento che sembrava eterno. Il vicolo era affollato e tutti puntavano lo sguardo a quell’uomo venuto dall’Africa. Un uomo segnato dal passato ma sereno e con lo sguardo fiero.
In quell’attimo guardando gli occhi di mia nonna scoprivo lo sguardo di una donna altrettanto stanca ma con il cuore leggero. Tra le sue labbra, che si muovevano impercettibilmente sfiorandosi, si trovavano quelle parole illeggibili che solo il suo cuore conosceva. Forse una richiesta, forse il desiderio di vederci grandi e realizzati nei nostri obiettivi. Con gli occhi lucidi si faceva il segno della croce.
Solo in quel momento mi lasciava la mano e con l’altra tenendo stretta la uantiera, raccoglieva con delicatezza i petali di ortensia e li faceva volare sulla statua a pioggia. Un gesto semplice che ho visto mille volte nelle mura della sua piccola cucina. Un gesto che serviva a infarinare la pasta della pizza. Un gesto che nella sua quotidianità donava quella maestria che possedeva solo lei.
Ora quei gesti, quei profumi e quelle sensazioni sono andate via insieme a lei. Restano scolpite nel mio cuore ma appartengono a ricordi ormai lontani.
La Festa Patronale per Sant’Elpidio. Un evento che abbraccia il sacro e profano per molti.
Questo è quello che rivivo e scopro ogni anno in questo paese che si unisce in un unico abbraccio ogni terza domenica di luglio. Uno spettacolo che vivranno altri bambini come facevo io. Una delle tradizioni popolari che non dovrebbero mai smettere di esistere.
Dietro a tutto questo ci sono donne e uomini che fanno sacrifici, che sudano e si rompono la schiena, non solo nei giorni della festa ma ogni domenica, sotto il sole e sotto la pioggia percorrono ogni vicolo del nostro paese per raccogliere qualche moneta, per regalare queste sensazioni e meravigliose serate fra canzoni, risate e vino. Per quel momento di leggerezza al sapore di zucchero a velo. Per quel frammento di canzone cantato a squarciagola.
Il sacro e profano!
C’è chi dà poca importanza a queste cose e le critica riducendole a momenti profani in un festeggiamento di sacralità. C’è chi rema contro a quella serata dove il cielo si illumina di colori lasciando tutti con il fiato sospeso ed il volto illuminato dai bagliori dei fuochi d’artificio.
Io ci vedo soltanto l’incontro fra chi ama stare con gli altri e sentirsi parte di una famiglia allargata. Ci vedo la tradizione che non deve soccombere alle smancerie dell’epoca moderna. Ci vedo il futuro umano in un mondo lacerato dall’odio e dalle tendenze.
Oggi è così. A fest do paese è contro tendenza.
A fest do Zingarone è contro tendenza.
È tutto quello che è contro tendenza mi piace!
Grazie a tutto quelli che contribuiscono alla Festa patronale di Sant’Elpidio Vescovo guarda altre foto nel mio portfolio